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Un riflessione sul film ’Uomini di Dio’

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Se ci sono film capaci di spostare lentamente, quasi inconsapevolmente, l’attenzione dello spettatore verso la propria coscienza, Uomini di Dio è uno di questi. Te ne accorgi quando, d’un tratto, non sei tu a guardare il film ma è lui a guardarti dentro, a misurare la tua capacità di stare solo, solo dinanzi un progetto, una responsabilità, un impegno che non fanno parte della tua vita, come fosse un’aggiunta, ma ne sono parte e, quindi, essenza: credere in Dio.

 Lunghi silenzi nel film favoriscono quell’introspezione, supportati, peraltro, da immagini molto eloquenti, che pesano e scavano: i volti di uomini, donne e bambini algerini, tutti provati, sono comunque i volti felici della semplicità che solo la povertà può regalare, anzi, restituirci: nasciamo semplici perché ricchi della sola povertà del nostro essere umani. Al regista; Xavier Beauvois, l’acutezza di non aver affidato un messaggio immenso a troppa parola, sarebbe risultata uno sterile balbettio.
 E’ uno di quei film per i quali non ha alcun senso raccontare la trama perché non è la trama in sé a raccontarlo e renderlo pregevole, quanto il paradigma che intimamente si dipana svelando, nei protagonisti e in noi, un’antica fatica: la fatica del credere e la ri-conquista della Fede, quella con l’iniziale maiuscola.

Otto monaci francesi abitano un monastero sperduto sulle montagne del Maghreb, e si ritrovano a fare i conti, ognuno per sé, con la propria ampiezza di fede, minata dalla paura per la violenza che dilaga intorno a loro e al villaggio di confessione mussulmana, nato e cresciuto all’ombra del monastero cristiano. La fede che non è supportata dalle opere può diventare esaltazione, e l’ora et labora benedettino fa zavorra e scongiura da sempre quel pericolo, ma nessuno sa quale ampiezza di fede, così molliccia nel nostro quotidiano operare, ci viene all’improvviso richiesta. 

 E’ quell’ampiezza che ogni monaco sonderà e recupererà in sé, e che motiverà il loro martirio: Dio è amore, e lo sa il buon credente e il peccatore convertito, ma Dio è soprattutto amore incondizionato, ecco perché in quell’amore confluisce anche il peccatore non convertito (“Io mi sono fatto trovare anche da quelli che non mi cercavano, ho risposto anche a quelli che non mi invocavano” Romani 10,20). Lo sa bene Christian (Lambert Wilson), l’abate generale, che piange e prega sulla salma del terrorista, ucciso dai soldati di un governo corrotto per il quale il monaco, e tutto il monastero, sono già un nemico.  

 Eppure la fedeltà a quell’amore che abbonda in Christian, non contagerà gli altri monaci che seguiranno strade diverse e tutte faticate per raggiungerla, come a confermare che ciò che paralizza e snatura è, molte volte, la paura, ancor peggio la paura della paura.
Siamo come uccelli su un ramo…” così, uno dei monaci, giustifica la loro presenza precaria lì e la probabile fuga da quel territorio, troppo rovente per la permanenza in un monastero cristiano; “Gli uccelli siamo noi – obietta la donna algerina – il ramo voi: se ve ne andate dove ci poseremo?”.
E i monaci decidono di rimanere. Ecco allora affiorare il vero volto dell’amore: quello della responsabilità e della cura: C’è in ognuno la luce di razione incancellabile… Dovunque qualcosa di generoso si svincola dal nostro egoismo e si piega dolcemente sopra una pena e una miseria altrui, lì si innalza e continua il monte della Trasfigurazione (Don Primo Mazzolari).
 
Cos’altro è credere in Dio se non  l’impegno, ora rinnegato, comunque fedele, sempre tenace, a trasfigurarsi...

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